Tortura e violenze – Sentenza Ceka v. Albania, 23 ottobre 2012
Una banale lite, uno strattone, la morte di un diciassettenne pesa ancora come un macigno dietro alle mura del carcere di Rubik in Albania. Si ha come l’impressione che ci sia quasi una rassegnazione intrinseca alle violenze gratuite nelle stanze “segrete” degli interrogatori, come se ogni volta l’uniforme di un ufficiale, di una guardia, di un secondino qualsiasi, determinasse uno status inattaccabile, lontano anni luce dal rispetto dei diritti umani.
IL CASO – Il 6 maggio del 2004 i due gemelli all’epoca dei fatti quasi diciassettenni C ed E entrambi figli della ricorrente, la sig.ra Ceka, vengono arrestati dalla polizia di Rubik e messi in custodia con l’accusa di furto.
I due fratelli si trovano a condividere la cella con altre due persone, e per un motivo che non viene specificato, E, il figlio della ricorrente ed il suo compagno di cella il signor K litigano, ma la questione viene smorzata dalla guardia G, la quale porta i due detenuti nella stanza degli interrogatori. A dirimere l’inconveniente interviene l’ufficiale V che uscirà dopo qualche minuto per interrogare sui fatti gli altri due detenuti che con loro condividevano la stessa cella.
Nel frattempo la guardia G che era rimasta nella sala degli interrogatori per sorvegliare, respinge la richiesta del giovane E, che era quella di ottenere la sistemazione in una cella diversa. Il diverbio divampa in una colluttazione, la guardia G sferra schiaffi sul viso e sul collo del detenuto e nel giro di pochi istanti il malcapitato E si ritrova per terra privo di conoscenza a causa di un forte strattone.
I postumi? Un stato doloroso, mal di testa e nausea. Dopo ripetute richieste avanzate nel pomeriggio dello stesso giorno, viene portato solo nelle prime ore del mattino seguente all’ospedale di Rrëshen. I medici decidono di mandarlo per delle cure specialistiche all’Ospedale Militare di Tirana, ma a causa dell’impossibilità di ottenere un trasporto aereo, l’appena diciassettenne E figlio della ricorrente Ceka, muore elle ore 4.00 dell’8 luglio 2004. Il certificato di morte accerta “un’emorragia cerebrale ed un ematoma epidurale”.
L’inchiesta penale prosegue, la guardia G e l’ufficiale V vengono sospese dal servizio, e detenuti a partire dal 10 luglio dello stesso anno in custodia cautelare. Dopo poco più di dieci giorni un esame microscopico effettuato sul cadavere sulla base del quale il medico legale conclude che la morte di E è stata causata dalla contusione della testa nel momento in cui ha colpito il pavimento. Il processo termina con la condanna dell’ufficiale V a sei mesi e venti giorni di reclusione con rito abbreviato, il procedimento giudiziario a carico della guardia carceraria G si conclude in Appello sempre con rito abbreviato con la condanna a due anni di carcere.
Nella causa intentata in sede civile contro la polizia del commissariato di Mirditë, la ricorrente Ceka ottiene un risarcimento per danno morale per la morte del figlio di 17.257 euro. La Corte ha infatti dichiarato che il figlio della ricorrente E era stato picchiato durante la detenzione dagli agenti di polizia, e che questi non avessero allertato in tempo utile i medici circa le condizioni di salute sempre più gravi del detenuto. Il Commissariato infatti non aveva rispettato e seguito le procedure necessarie. Il ricorso è ancora pendente innanzi alla Corte di Cassazione.
IL GOVERNO – La ricorrente Ceka lamenta in Corte Edu la violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione a causa della morte di suo figlio nelle mani della Polizia, e la mancanza di un effettivo accertamento. Il comportamento del Governo albanese in questa vicenda processuale gioca un ruolo alquanto determinate, poiché presenta in data 16 luglio 2012 una lettera in cui esplicita l’intenzione di risolvere le questioni sollevate nel ricorso, chiedendo inoltre alla Corte di cancellare l’applicazione ai sensi dell’art. 37 CEDU. Suddetto articolo permette alla Corte EDU in qualsiasi momento, accertati i presupposti, di cancellare dal ruolo il ricorso.
Il Governo albanese, nella missiva si guarda bene dal discostarsi profondamente circa le condotte ignobili perpetrate dagli agenti. Inoltre sottolinea che anche in sede processuale i giudici attraverso la sentenza civile, nonché con l’assegnazione di 17.257 euro di risarcimento alla signora Ceka, hanno accertato le violazioni compiute dalle guardie.
In buona sostanza Tirana per mezzo di questa dichiarazione unilaterale riconosce una violazione procedurale degli artt.2 e 3 della Convenzione, e garantisce pro futuro la censura assoluta di tali comportamenti e raccapriccianti analoghe circostanze. Propone inoltre un pagamento di euro 10.000 alla Sig.ra Ceka “a copertura di qualsiasi danno patrimoniale, nonché di tutti i costi e le spese, più qualsiasi tassa che può essere a carico della ricorrente, tenuto conto ovviamente di quanto già previsto dai giudici nazionali”.
CORTE EDU – La Corte ricorda che l’art.37 della Convenzione che essa può, in qualsiasi fase del procedimento, decidere di cancellare un ricorso dal suo elenco”di casi in cui le circostanze portano a una delle conclusioni di cui al punto (a), (b) o (c) del paragrafo 1 di detto articolo”.
Articolo 37 – Cancellazione
1. In ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere: a) che il ricorrente non intende più mantenerlo; oppure b) che la controversia è stata risolta; oppure c) che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata. Tuttavia la Corte prosegue l’esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli lo imponga. 2. La Corte può decidere una nuova iscrizione a ruolo di un ricorso se ritiene che le circostanze lo giustifichino.